Mostra personale Matthias Brandes
Categoria: MostreData: dal 03 maggio 2008 al 03 giugno 2008
Indirizzo: Galleria Polin Treviso Vicolo San Pancrazio, 20
Provincia: Treviso
Referente: Polin Christine
Per informazioni: 0422-580004 340.3356420
E-mail: info@galleriapolin.com
Non esistono risposte concrete a queste domande, perché la pittura di Matthias Brandes è tutta nel suo impatto immediato, nelle emozioni che fa risuonare dentro di noi toccando le nostre corde più profonde. E' una pittura che incanta proprio per quel suo non fornire né cercare spiegazioni. La sua logica - se una logica vi si può trovare - è quella che presiede i sogni. Forse, si potrebbe azzardare, quella delle libere associazioni freudiane. Forse tutto comincia con quella costruzione vista di scorcio, l'unica diritta dell'intera composizione, e dalle sue quattro finestre ad arco cieche. A questa si appoggiano l'edificio basso e quadrangolare, completamente steso a terra (il tetto rosso è laterale), e anche l'altro, con un oblò sulla facciata. Da lì è tutto un susseguirsi di solidi geometrici addossati l'uno all'altro come nel gioco del domino, poi un cipresso, una cupola, un altro tetto. La sensazione è la medesima, sia che quelle case mantengano un se pur minimo grado di realtà perché adagiate su una roccia o sulla superficie calma dell'acqua, sia che si rivelino gli elementi di una natura morta appoggiata su un tavolo dalla tovaglia immacolata. Resta invariata l'essenza di quel loro essere al tempo stesso vere e sognate; solide, granitiche, eppure così leggere da librarsi in volo. Immerse in un silenzio talmente assoluto da far pensare all'assenza d'aria, un sottovuoto che, lungi dall'essere inquietante, dona a quegli scorci di paesaggio la grazia della perfezione. Reminiscenze immediate del primo Rinascimento, della ricercata armonia di volumi di Piero della Francesca, saltano all'occhio al primo sguardo, ma come stemperate da una sensibilità che accomuna Brandes alle inquietudini di De Chirico e agli enigmi di Carrà, agli equilibri di Sironi e alle atmosfere oniriche del surrealismo. Eppure nessuna di queste associazioni è del tutto corretta. E nessuna può vivere senza le altre. Scorrono tutte insieme sotto la pelle del quadro e ne emergono in un'armonia perfetta e riconoscibile che tutte le ricorda e al tempo stesso tutte le rinnega, in una realtà altra, senza tempo e attualissima.
Matthias Brandes è un artista meditativo, lentissimo e meticoloso, che soffre la creazione di ogni singolo quadro pagandola con dubbi e insicurezze, ripensamenti e indecisioni che appaiono inimmaginabili a chi si trovi davanti la perfetta e appagata tranquillità del risultato finale. Scrivere dei suoi dipinti - come inevitabilmente richiede la critica - come di un unico lavoro indistinto, dunque, insinua lo spiacevole sospetto di commettere un tradimento. E nel profondo della sua anima l'artista considera un tradimento del proprio lavoro anche il momento della mostra. Ognuna delle sue creature, cesellata in ore e ore di lavoro, pennellata dopo pennellata, notte insonne dopo notte insonne, è lì, appesa al muro, affiancata a tutte le altre come se fossero meri fotogrammi dello stesso film. A ognuna lo spettatore non potrà dedicare più di qualche minuto, distraendosi, rischiando che l'occhio vaghi da un quadro all'altro, che la mente sia chiamata a rispondere a una domanda, a un pezzo di conversazione. Che cosa potrà mai cogliere di tutto quello che il dipinto è? Eppure il pittore dipinge per gli altri, non potrebbe mai sopportare di tenere tutto quel tumulto di emozioni solo per sé. Dipinge per far conoscere il suo lavoro, per raccontare il suo mondo sognato fatto di case nelle quali è impossibile entrare e di cieli talmente limpidi che le nuvole appaiono solo un pretesto per intingere il pennello in un altro colore. Ma va bene così. Anche se di quel sogno resterà attaccato a chi lo guarda solo un piccolo brandello, l'opera sarà compiuta. Il pittore saprà di avere fatto il suo dovere.
Alessandra Redaelli
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